Il dato da rilevare è l’allora volontà degli Stati membri di creare, parallelamente alle strutture del mercato unico già esistente, uno spazio, quello di libertà, sicurezza e giustizia, traino dell’integrazione politica non solo tra i Paesi membri, ma anche e soprattutto volto a sviluppare la cooperazione tra questi e i Paesi terzi proprio nelle materie specificate ad Amsterdam.
L’idea era quanto mai innovativa: prendeva come esempio gli strumenti utilizzati nel campo del mercato unico per riportarli in quello dell’integrazione politica da realizzarsi proprio tramite la creazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia.Il primo contributo fu dato dalla Commissione europea che, forte delle basi giuridiche del titolo IV del Trattato CE, del titolo VI del TUE e dell’acquis di Schengen, diede le linee guida per la creazione di un quadro coerente che definiva gli obbiettivi prioritari per il quinquennio successivo e un calendario di provvedimenti necessari alla realizzazione del suddetto spazio contemplato ad Amsterdam. Scopo era quello di assicurare la libera circolazione delle persone garantendo la loro sicurezza tramite l’agevolazione della cooperazione in materia di giustizia e di affari interni, non soltanto in seno all’Unione ma anche con i Paesi candidati all’adesione. Le nozioni di libertà, sicurezza e giustizia furono tracciate dalla Commissione nel Piano d’Azione adottato a Vienna il 3 dicembre 1998 [COM (98) 459] così come era stato richiesto dai Capi di Stato e di Governo riuniti nel Consiglio Europeo di Cardiff (SN 150/1/98 REV 1) di sei mesi prima:• uno spazio di libertà per «garantire la libera circolazione delle persone sul modello di Schengen, ma altresì tutelare i diritti fondamentali e lottare contro qualsiasi forma di discriminazione». Parimenti dovevano essere garantite il rispetto della vita privata e in particolare della protezione dei dati personali. Si ribadiva che, per quanto riguardava l’asilo e l’immigrazione, gli strumenti utilizzati in passato non erano vincolanti ma, essendo ormai questi settori entrati nell’ambito del Trattato CE, dovevano essere adottati strumenti comunitari per definire una vera politica europea.• uno spazio di sicurezza che comprendesse «la lotta alla criminalità, segnatamente al terrorismo, alla tratta di esseri umani, ai reati contro i minori, al traffico di droga, di armi, alla corruzione e alla frode […]».• uno spazio di giustizia finalizzato, «nonostante le differenze esistenti negli Stati membri, all’obiettivo di garantire ai cittadini europei un pari accesso alla giustizia e ad agevolare la cooperazione delle autorità giudiziarie». In materia civile, la cooperazione giudiziaria doveva mirare ad una semplificazione dell’ambiente dei cittadini europei. In materia penale, essa doveva consentire il potenziamento del coordinamento delle azioni giudiziarie e fornire un sentimento comune di giustizia definendo norme minime per i reati, le procedure e le sanzioni. Veniva altresì posto l’accento sul caso delle vertenze transfrontaliere.Il Piano d’azione, inoltre, prevedeva che le relazioni dell’Unione europea con i Paesi terzi e le organizzazioni internazionali si evolvessero secondo i cambiamenti apportati a Amsterdam in quanto diritto d’asilo, immigrazione e cooperazione giudiziaria in materia civile rientravano ormai nelle competenze del primo pilastro e quindi la Comunità possedeva nuove capacità esterne che le avrebbero consentito di esercitare un’influenza sul piano internazionale in detti settori. Bisognava quindi creare un sistema che assicurasse un buon coordinamento dell’insieme evitando sovrapposizioni e fornendo l’esperienza necessaria alla presa di decisioni.Le disposizioni del Trattato di Amsterdam prevedevano che la creazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia fosse ultimata nell’arco di cinque anni. Si trattava di elaborare disposizioni comuni per le condizioni di ingresso, soggiorno e ritorno, di lottare con maggiore efficacia contro l’immigrazione illegale e di definire i diritti dei cittadini dei Paesi terzi in materia di libera circolazione sul territorio dell’Unione.Dal 1999, anno dell’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, ad oggi i cambiamenti sono stati molteplici. Per ciò che più ci interessa, dobbiamo necessariamente constatare che durante i tre quinquenni programmati dai Consigli europei di Tampere (1999-2004), l’Aia (2004-2009) e Stoccolma (2009-2014), non sempre i risultati sperati sono stati raggiunti (un esempio tra tutti è la mancata realizzazione di una politica comune sull’immigrazione latu sensu); che l’iniziale euforia si è presto spenta e che non si è proceduto sempre agli stessi ritmi. Uno dei motivi della brusca frenata dei programmi dell’Aia e di Stoccolma fu lo sconvolgimento degli attentati di New York, Londra e Madrid che ridimensionarono molto sia l’aspetto votato alla cooperazione verso “l’esterno”, che quello delle politiche di accoglienza all’interno.Presto ci fu la consapevolezza del fatto che mancassero ancora dei tasselli per la realizzazione dello scopo primario e che quindi ancora tanto doveva essere fatto soprattutto in vista degli allargamenti ad Est che rendevano sì più numerosa l’Unione, ma che allontanavano dall’obiettivo di una integrazione europea tangibile a causa della necessità di dover far adottare anche ai Paesi di nuova adesione standard comuni elevati in materia di sicurezza e giustizia. Ulteriore ostacolo fu quello dei limiti istituzionali, a causa delle reali possibilità di controllo dell’UE dell’attuazione delle politiche da parte delle autorità nazionali.2. Il Trattato di Lisbona. Con i progressi sanciti dal Trattato di Amsterdam, nel terzo pilastro rimanevano la cooperazione giudiziaria in materia penale e la cooperazione di polizia. Il prevalere in tale contesto del metodo intergovernativo costituiva un limite per un’azione efficace da parte dell’UE per dare un senso complessivo alla realizzazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Il Trattato di Lisbona, entrato ufficialmente in vigore il 1 dicembre 2009, ha posto fine a tale situazione. Esso mira a rafforzare la realizzazione di uno spazio europeo comune in cui le persone possano circolare liberamente e ricevere una protezione giuridica efficace. La realizzazione di tale spazio ha un impatto sulle aree in cui le aspettative dei cittadini europei sono elevate, come l’immigrazione, la lotta contro la criminalità organizzata o il terrorismo. Questi aspetti, avendo una forte dimensione transfrontaliera, richiedono una cooperazione efficace a livello europeo.Il Trattato di Lisbona distingue le questioni relative allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia in quattro settori: le politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione; la cooperazione giudiziaria in materia civile; la cooperazione giudiziaria in materia penale; la cooperazione di polizia.I controlli alle frontiere, l’asilo e l’immigrazione. Il Trattato ha conferito nuove competenze alle istituzioni europee che hanno ora facoltà di adottare misure volte all’istituzione di una gestione comune delle frontiere esterne dell’Unione europea in particolare attraverso lo sviluppo dell’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne, denominata Frontex; alla creazione di un sistema europeo comune di asilo, basato su uno status europeo uniforme e su procedure comuni per l’ottenimento e la revoca dell’asilo; alla creazione di regole, condizioni e diritti in materia di immigrazione legale.La cooperazione giudiziaria in materia civile. Il Trattato di Lisbona consente alle istituzioni europee di adottare nuove misure riguardanti l’attuazione del principio di riconoscimento reciproco delle decisioni in materia civile e commerciale; l’accesso effettivo alla giustizia; lo sviluppo di metodi alternativi per la risoluzione delle controversie; la formazione dei magistrati e degli operatori giudiziari.La cooperazione giudiziaria in materia penale. Con la riforma di Lisbona, in tale ambito, le istituzioni europee possono stabilire norme minime relative alla definizione e alla sanzione dei reati penali più gravi. L’UE può altresì intervenire nella definizione di regole comuni per lo svolgimento dei procedimenti penali, per esempio per quanto riguarda l’ammissibilità delle prove o i diritti della persona. Inoltre, il Trattato di Lisbona intende rafforzare il ruolo di Eurojust, la cui missione è contribuire al coordinamento delle indagini e delle azioni penali tra le autorità competenti degli Stati membri. Attualmente, Eurojust detiene solo un potere di iniziativa: può chiedere cioè alle autorità nazionali di avviare indagini o azioni penali. Il Trattato di Lisbona ha dato la possibilità alle istituzioni dell’Unione europea di estendere i compiti e i poteri di Eurojust attraverso la procedura legislativa ordinaria. Inoltre, il Trattato di Lisbona considera l’eventuale creazione di una vera e propria procura europea proprio a partire da Eurojust. Tale procura avrebbe ampi poteri in quanto potrebbe cercare, perseguire e rinviare a giudizio gli autori di reati. La procura europea potrebbe altresì esercitare autonomamente l’azione penale dinanzi alle giurisdizioni competenti degli Stati membri.La cooperazione di polizia. Come per la cooperazione giudiziaria penale, anche per la cooperazione di polizia la procedura legislativa ordinaria è estesa a tutti i suoi aspetti non operativi. La cooperazione operativa fa infatti riferimento ad una procedura legislativa speciale che richiede l’unanimità del Consiglio. Tuttavia, il Trattato di Lisbona prevede anche la possibilità di istituire delle cooperazioni rafforzate in caso di mancata unanimità e di rafforzare progressivamente il ruolo dell’Ufficio europeo di polizia (Europol). Infatti, come per Eurojust, il Trattato di Lisbona autorizza il Consiglio ed il Parlamento a estendere i compiti e i poteri di Europol, nel quadro della procedura legislativa ordinaria.Un ruolo non marginale in tali ambiti spetta poi alla cittadinanza europea e alla protezione e garanzia di tutela dei diritti fondamentali: è la Carta dei diritti fondamentali dell’UE che sancisce tutti i diritti, civili, politici, economici e sociali che derivano dalla cittadinanza europea. L’Agenzia europea per i diritti fondamentali (FRA) aiuta i responsabili politici a elaborare la normativa in questo campo e a sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti fondamentali. In tal senso l’UE si adopera per impedire che i cittadini europei siano oggetto di discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, le disabilità, l’età o le tendenze sessuali cercando di tutelare il diritto di ogni cittadino alla protezione dei dati personali.3. Il Consiglio europeo di Ypres, 26 e 27 giugno 2014. I nuovi indirizzi strategici per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia sono stati tracciati recentemente dal Consiglio europeo riunitosi a Ypres e a Bruxelles il 26 ed il 27 giugno 2014 (EUCO 79/14) e che subentreranno al programma di Stoccolma il 1 dicembre 2014, guidando l’azione dell’Unione europea nel quinquennio 2015-2020. In questo modo il Consiglio europeo risponde al compito di fissare la «programmazione legislativa e operativa», ex art. 68 TFUE, disposizione che puntualizza e rafforza, per il titolo V del Trattato, la funzione tipica del Consiglio europeo, quella cioè di dare all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e definire gli orientamenti e le politiche generali (art. 15 TUE). I destinatari di questa programmazione sono gli Stati membri e le altre istituzioni politiche dell’Unione, in primis la Commissione, in quanto titolare del potere di iniziativa legislativa. Si tratta di disposizioni che, pur essendo riconducibili all’ambito della c.d. “soft law”, possono svolgere un importante ruolo di indirizzo dell’integrazione europea. Quanto detto è provato dalla prassi già consolidata al momento dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che l’art. 68 TFUE ha “istituzionalizzato”: anche in assenza di una specifica base giuridica, la programmazione pluriennale nel campo della giustizia e degli affari interni era stata avviata sin dal programma di Tampere.Tuttavia, leggendo le Conclusioni di Ypres, il primo elemento con cui ci si scontra è quello per cui il Consiglio Europeo abbia ancora oggi tra i suoi obbiettivi prioritari la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia e che, nonostante siano trascorsi 15 anni dalle prime linee guida della Commissione, si ha l’impressione che questo spazio non sia stato effettivamente mai creato. Stesso problema si pone per «le misure politiche coerenti in materia di asilo, immigrazione, frontiere e cooperazione di polizia e giudiziaria». Il Consiglio afferma infatti che «occorre» ancora «adottare un approccio globale che ottimizzi i benefici della migrazione legale e offra protezione a coloro che ne hanno bisogno, affrontando nel contempo con decisione la migrazione irregolare e mettendo in opera una gestione efficiente delle frontiere esterne dell’UE». Anche in questo caso, che oltretutto rappresenta una delle problematiche che assillano maggiormente i Paesi UE che si affacciano sul Mediterraneo – ma che dovrebbe interessare anche quegli Stati del Nord Europa che sono spesso la destinazione reale delle migrazioni illegali -, si comprende bene come l’azione dell’UE sia ancora lontana dall’obbiettivo di uniformazione delle legislazioni nazionali che aveva (ed ha tuttora) lo scopo di rendere omogeneo un quadro che, seppur oramai comunitarizzato, stenta ancora ad esserlo nella realtà. Quanto appena detto è provato dal fatto che, continuando a scorrere le Conclusioni di Ypres, il Consiglio richieda ancora impegno per «il pieno recepimento e l’attuazione efficace del sistema europeo comune di asilo (CEAS)» che «costituiscono una priorità assoluta». Secondo i capi di Stato e di Governo «ciò dovrebbe tradursi in norme comuni di livello elevato e in una maggiore cooperazione, creando condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l’Unione» procedendo «di pari passo con un rafforzamento del ruolo svolto dall’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO), in particolare promuovendo l’applicazione uniforme dell’acquis». Infine il Consiglio auspica ancora una volta che le «pratiche convergenti rafforzeranno la fiducia reciproca e consentiranno di procedere verso le prossime fasi».Il contenuto di questi brevi enunciati rende chiaro che le nuove linee guida di Ypres sono ancora dedicate alla ricerca di una politica comune per la gestione delle migrazioni e al controllo delle frontiere europee, politica comune che latita nonostante la situazione richiederebbe da diversi anni un atteggiamento diverso e di certo omogeneo in tutti gli Stati membri.Dal testo delle Conclusioni emerge sì un’attenzione significativa per i fenomeni dell’immigrazione dai Paesi terzi, dell’accoglienza dei profughi e della cooperazione internazionale, sottolineando le loro interconnessioni nella costruzione di uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, ma al tempo stesso emergono chiari gli elementi di ambivalenza e criticità. Per alcune materie è come se ci si trovasse ancora all’inizio di un percorso che sta per essere affrontato e non dinanzi ad un lavoro, di evidente importanza, iniziato già anni fa. Tra questi elementi troviamo:a. la necessità di concentrarsi sulle cause profonde delle migrazioni, operando con i Paesi d’origine e di transito dei profughi mediante gli strumenti della politica estera dell’Unione e della cooperazione internazionale;b. l’esigenza di un pieno recepimento da parte degli Stati UE del CEAS (Sistema europeo comune d’asilo), mediante norme comuni di livello elevato finalizzate a creare condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l’Unione. Rispetto a questo bisogno, vengono auspicati un’equa condivisione delle responsabilità tra gli Stati dell’UE e un ruolo operativo dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO);c. il bisogno di modernizzare la politica comune in materia di visti per agevolare i viaggi legittimi (ipotesi supporrebbe il rafforzamento delle funzioni della rete consolare UE);d. la ripresa della prospettiva del Global approach per massimizzare le opportunità delle migrazioni legali sostenendo gli Stati membri in politiche attive di integrazione per la coesione sociale e il dinamismo economico, anche attraverso il coinvolgimento delle comunità imprenditoriali e delle parti sociali.
Parole, queste del giugno 2014, in realtà già presenti nelle Conclusioni del Consiglio europeo del lontano 1999 a Tampere e che fanno pensare che non troppi progressi siano stati compiuti in tali materie.Non mancano poi elementi di ambivalenza e criticità tra cui la mancanza di indicazioni contenutistiche tali da poter imprimere la dovuta forza allo sviluppo di una legislazione futura in tali ambiti; la troppa genericità degli enunciati delle Conclusioni sia in materia di migrazioni che in quella ancor più ampia della politica di contrasto alla criminalità terroristica. Anche qui il Consiglio europeo ha sottolineato la necessità di una integrazione tra i profili esterni e quelli interni dell’azione dell’UE tra cui emergono l’importanza della figura del coordinatore antiterrorismo UE e del contrasto dei combattenti stranieri. Prevenire e combattere la criminalità e il terrorismo: inasprendo la lotta contro la criminalità organizzata come la tratta degli esseri umani, il contrabbando e la criminalità informatica; contrastando la corruzione; lottando contro il terrorismo e la radicalizzazione garantendo nel contempo i diritti e i valori fondamentali, compresa la protezione dei dati personali.Ambiguo risulta infine lo status del migrante e quello del soccorritore: il primo può essere vittima a cui spetta tutela o soggetto passibile di denuncia; per il secondo si continua a denunciare l’emergenza umanitaria ma lo si lascia nel pericolo penale di accusa di favoreggiamento (che varia ancora una volta in base allo Stato membro).
Luisa Di Fabio
Per saperne di più su:
Carta dei diritti fondamentali